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Pagina:Aleardi - Canti, Firenze 1899.djvu/418

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NOTA.



Dimando scusa di questa nota che riguarda me solo solissimo. Pure la metto, perchè ognuno à i suoi orgogli, e anch’io ò il mio; quello, vo’ dire, di non essere mai stato in vita mia nè Ghibellino nè Guelfo, ma italianissimo sempre.

E però non vorrei si credesse, che questo mio sdegno severo contro il poter temporale, e questa lancia che m’industrio di rompergli addosso, fosser cose nate da ieri; fossero germogliate in causa delle recenti ribalderie del governo pontificio, o dello stomachevole baccanale, che cardinalume, vescovume e forestierume festeggiarono, per l’ultima volta, a Roma, di fresco.

No. Per me queste le sono idee vecchie, che ò cominciato ad avere quando ò cominciato a pensare, e non mi sono lasciato cambiare nè anche da quello stupendo sofisma del Primato. Anzi, un presentimento sempre mi disse di dentro, che prima di andarmene dal mondo avrei veduto andarsene, in compagnia dell’Austria, anche il regno dei preti. E così sia, chè n’è ora.

A prova di ciò mi è caro poter citare dei brutti versi scritti nei bei tempi della mia prima gioventù, quando ero in mezzo, per dirla col mio povero Beppe, alla baraonda tanto gioconda della mia buona Padova. Essi facean parte di un mostro che i miei amici ed io avevamo il coraggio di chiamar Ode. Ora codesto mostro, parlando, al suo modo, di patria, di religione e di amore, ch’egli chiamava l’Immenso tripode, su cui La Poesia brillò, fra le altre perle conteneva queste due strofe:

«Cantiam la Patria. È un gelido
     Silente cimitero;
     Ondeggia innanzi al portico
     Un drappo giallo e nero
     Lo affolla una miriade
     D’ombre di schiavi e re.
Un uom dal seggio logoro
     Veglia le tombe ree,
     Sir di coscienze, pallido
     Imperador d’idee
     Tricoronato vantasi,
     Senza corona egli è.»