Pagina:Alencar - Il guarany, III-IV, 1864.djvu/212

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giovane, appena allora riavutasi da uno svenimento; ma il volto palesava una calma, o piuttosto un’immobilità che accorava.

Ritornata in sè, Isabella gettò un’occhiata per la stanza, come per accertarsi se non fosse sogno quanto avea veduto.

La sala era deserta; don Antonio era uscito per dare gli ordini opportuni; sua moglie inginocchiata nell’oratorio sopra un mucchio di rovine orava a pie’ d’una croce collocata presso l’altare.

Nel fondo della stanza, sopra il sofà, risaltava il corpo immobile del cavaliere, a’ cui piè ardeva un cero, che gettava un pallido chiarore.

Cecilia vi stava da presso, e stringeva al suo seno quel capo esanime, procurando ravvivarlo.

Quando l’occhio d’Isabella cadde sul corpo del suo amante, come attratta da una forza soprannaturale attraversò rapidamente la sala, e andò alla sua volta ad inginocchiarsi in faccia a quel letto di morte.

Ma non era per pregare che inginocchiavasi, sì bene per struggersi nella contemplazione di quel volto livido e freddo, di quelle labbra gelate, di quegli occhi spenti, che amava malgrado la morte.

Cecilia rispettò il dolore di sua cugina, e per un istinto di delicatezza, di cui soltanto son capaci le donne, comprese che l’amore, anche in faccia d’un cadavere, nella sventura stessa, conserva il suo pudore e la sua castità; uscì per lasciar che Isabella piangesse liberamente.