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ii. del principe e delle lettere
 



ritroviamo anche di ciò negli esempi le prove. Dante non fu protetto: che poteva egli dar di piú? Mi si dirá forse: — Piú eleganza. — Ma egli ebbe tutta quella che comportavano i tempi suoi; e l’ebbe di gran lunga superiore a tutti i suoi predecessori che scritto aveano nella stessa sua lingua. Ma Orazio e Virgilio furono protetti: e diedero perciò quel tanto di meno, che la dipendenza e il timore andavano ogni giorno togliendo alla energia, giá non moltissima degli animi loro. Mi si opporrá, che Dante in una corte ripulita e delicata come quella d’Augusto non avrebbe adoprato tante rozze e sconce espressioni. Rispondo che questo può essere; ma soggiungo che Virgilio ed Orazio, fuor di tal corte, non si sarebbero contaminati di tante vili adulazioni e falsitá. Qual è peggio?

È anche vero però che forse costoro nulla affatto avrebbero scritto, se non fossero stati protetti da Augusto: ma che si verrebbe egli con ciò a provare? che il loro impulso era debole e secondario. Orazio stesso sfacciatamente e ingenuamente lo dice, parlando di sé:

. . . . . . Paupertas impulit audax,
ut versus facerem. Sed, quod non desit, habentem,
quæ poterunt unquam satis expurgare cicutæ,
ni melius dormire putem, quam scribere versus?1

Chiaro è che un autore che dice questo di se stesso, e che riconosce per primo motore del suo poetare la necessitá, e che sovrana felicitá reputa il non far nulla, non si sente certamente mosso da nessuna effervescenza d’animo, e non ha né sublime il carattere, né infiammato il cuore: e quindi non sublimerá egli mai il carattere, né infiammerá mai il cuore di chi lo legge. Orazio dunque, con un sí fatto motore, dovea scrivere con molta eleganza debolissimi pensieri: e cosí in fatti scrisse, e cosí pensò; perché era nato per cosí scrivere e cosí pensare.


  1. «L’audace povertá mi spinse a far versi; ma se io mi ritrovava agiato, qual elleboro sarebbe mai bastato a guarirmi di tal mattezza, di non preferire il dolce sonno al far versi?». Orazio, libro II, epist. II, v. 51.