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libro ii - capitolo vii
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avrebbero pur troppo la sua vita servile. E se alcuno volesse anche trovare da ridere in un autor cosí grave, l’osservi in quei pochi suoi passi, dove egli pur vuole parer cittadino; e lo vedrá procedere con timiditá tanta, e con tante cautele, che la di lui pusillanime cittadinanza lo svela, anche piú che le ardite sue adulazioni, per un vile liberto di Augusto. Ma, chi vorrá pur trovarvi onde piangere, e con ragione, da quegli stessi passi ne ricaverá non picciolo dolore, riflettendo che da quei mezzi tocchi, e da quelle massimette di semilibertá snervate in versi eleganti, ne nasce assai piú danno che utile alla universalitá dei lettori. Dal poco dire, ne risulta il meno sentire; e dal sentir poco, allorché un tale effetto si trae da un autore di grido com’è Virgilio, se ne cava questa falsa induzione che in un buon libro (e massime di poesia) molte cose importantissime vi si debbono piuttosto tacere, o appena accennare, che scolpire. Non mancava a Virgilio null’altro che l’alto e robusto pensar di Lucano; ma questa mancanza ad ogni pagina vi si fa grandemente sentire. Se non isbaglio, gli epiteti sono quelli che meglio svelano l’animo, le circostanze e il piú o men forte sentire dello scrittore. Esamiamo rapidamente, sotto questo aspetto, l’epitetar di Virgilio.

Nel sesto libro, parlando egli d’Augusto, ne dice in diciotto versi ciò che mai d’uomo nessuno dir non potrebbesi senza sfacciata menzogna, e senza che parimente non arrossissero il lodatore e il lodato; ma in quei diciotto versi non ci osservo altro che il vile. Proseguiamo. Nominando egli i Tarquinii, cioè quegli abbominevoli tiranni, la cui sola espulsione di Roma la fece poi grande, Virgilio dice «Tarquinios reges»1 e non vi aggiunge epiteto nessuno: perché ogni giusto epiteto che avesse loro dato veniva ad essere per l’appunto l’epiteto che, in vece dei diciotto versi sopraccennati, meritamente e solo spettava ad Augusto. E si noti che il buon Virgilio dice «Tarquinios reges»; neppure osando dire tyrannos; ed ecco il timido e ingannevole poeta che scrive non pei romani, no, ma



  1. «I Tarquini re». Virgilio, lib. VI, v. 818.