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libro ii - capitolo viii
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da null’altro, se non dall’aver Virgilio anteposto gli agi e gli onori del corpo alla altezza e chiarezza della propria fama, dall’aver egli temuto piú la povertá che l’infamia, dall’aver egli riguardato Augusto come il tutto e Roma come il nulla, dall’avere egli in somma temuto se stesso minor d’un tiranno.

Il sublime letterato, a parer mio, si dée dunque stimare piú che uomo nessuno, se egli non vuol tradire la sacrosanta causa dei piú, che sempre dev’esser quella che in mille diversi modi egli tratta. E gli orgogliosi re che, scambiando la loro illimitata potenza con se stessi, si credono essere il tutto e sono il perfettissimo nulla, debbono ai sani occhi del letterato il nulla parere; che tanto divario corre per l’appunto fra un illustre scrittore ed un volgar re, quanto ne correa tra un cittadino romano ed un servo asiatico eunuco.

Ma parole al vento gittate sarebbero le mie, se altro aggiungessi per provar la supremazia del sublime ingegno su la volgare potenza: mi pare bensí di dover dir qualche cosa su la preeminenza tra un principe grande e un grande scrittore; rarissime e sublimi piante l’una e l’altra, ma assai piú rara, e sempre meno sublime, la prima.

Capitolo Ottavo

Qual sia maggior cosa, o un grande scrittore

o un principe grande.

Se tutti i pregi che si richiedono per fare il sublime scrittore si trovassero pure riuniti in un principe, di quanto non dovrebbe egli primeggiar sovra tutti, poiché egli può operar tante cose che lo scrittore può appena accennare? Questa mi pare una questione da doversi esaminare profondamente, per la semplice soddisfazione e persuasione dei piú; che se io dovessi parlare a quei soli pochi che giudicano per forza d’intimo sentimento, non la tratterei altrimenti. Ricapitolerei