Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. I, 1946 – BEIC 1727075.djvu/107

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atto quarto 101
l’alma indurata ancor non hai, deh! senti,

Gomez, pietade...
Gomez   E che poss’io?
Isab.   Tu, forse...
Gomez Di vano pianto, e ben celato, io posso
onorar la memoria di quel giusto:
null’altro io posso.
Isab.   Oh! chi udí mai, chi vide
sí atroce caso?
Gomez   A perder io me stesso
presto sarei, purché salvare il prence
potessi; e sallo il cielo. Io, dai rimorsi,
cui seco tragge di cotal tiranno
la funesta amistá, roder giá sento,
giá straziarmi il cor; ma...
Isab.   Se il rimorso
sincero è in te, giovar gli puoi non poco;
sí, il puoi; né d’uopo t’è perder te stesso.
Sospetto al re non sei; puoi, di nascosto,
mezzi al fuggir prestargli: e chi scoprirti
vorria? — Chi sa? fors’anco un dí Filippo,
in se tornando, il generoso ardire
d’uom, che sua gloria a lui salvò col figlio,
premiar potrebbe.
Gomez   E, se ciò ardissi io pure,
Carlo il vorrá? quant’egli è altero, il sai?
Giá il suo furor ravviso, in udir solo
di fuga il nome, e di sentenza. Ah! vano
ad atterrire quella indomit’alma
ogni annunzio è di morte; anzi, giá il veggo
ostinarsi a perire. Aggiungi, ch’ogni
mio consiglio od ajuto, a lui sospetto
e odíoso sarebbe. Al re simile
crede egli me.
Isab.   Null’altro ostacol havvi?
Fa pur ch’io il vegga; al carcer suo mi guida: