Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. I, 1946 – BEIC 1727075.djvu/222

Da Wikisource.
216 antigone



SCENA QUINTA

Creonte.

— Ogni pretesto cosí tolto io spero

ai malcontenti. Io ben pensai: cangiarmi
non dovea, che così;... tutto ad un tempo
salvo ho cosí. Reo mormorar di plebe
da impazíenza natural di freno
nasce; ma spesso di pietà si ammanta.
Verace, o finta, è da temersi sempre
pietá di plebe; or tanto piú, che il figlio
instigator sen fa. — Vero è, pur troppo! —
Per ingannar la sua mortal natura,
crede invano chi regna, o creder finge,
che sovrumana sia di re la possa:
sta nel voler di chi obbedisce; e in trono
trema chi fa tremar. — Ma, esperta mano
prevenir non si lascia: un colpo atterra
l’idol del volgo, e in un suo ardir, sua speme,
e la indomabil non saputa forza. —
Ma qual fragor suona intorno? Oh! d’arme
qual lampeggiar vegg’io? Che miro? Emone
d’armati cinto?... incontro a me? — Ben venga;
in tempo ei vien.


SCENA SESTA

Creote, Emone, Seguaci d’Emone.

Creon.   Figlio, che fai?

Emone   Che figlio?
Padre non ho. D’un re tiranno io vengo
l’empie leggi a disfar: ma, per te stesso
non temer tu; ch’io punitor non vengo
de’ tuoi misfatti: a’ Dei si aspetta: il brando,