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236 | virginia |
Appio Scuso di madre i detti. A te rispondo,
e teco, a Roma intera. Ove son leggi,
tremar non dee chi leggi non infranse.
A te rapir la figlia tua, s’è tua,
si tenta indarno. Amor di parte nullo
in me si annida. Al tribunal non venne
uom finor, che costei schiava esser dica. —
Ma voi, chi sete? o vero, o finto, il padre
qual è della donzella?
Numit. Appio, e nol sai?
Mirala ben: Virginia è il nome; il tragge
dal genitore a te ben noto, e a Roma,
ed ai nemici piú. Noi siam di plebe,
e cen pregiamo: la mia figlia nacque
libera, e tal morrá. Non dubbia prova
dello schietto suo nascere ti sia,
l’averla a se prescelta Icilio sposa.
Icilio Sappi, oltre ciò, ch’ella ad Icilio è cara
piú assai che vita, e quanto libertade.
Appio Per or, saper solo vogl’io, se nasce
libera, o no. L’esserti e sposa, e cara,
cangiar non può sua sorte. — I torvi sguardi,
i feroci di fiele aspersi detti,
che ponno in me? Quale ella sia, ben tosto
e Icilio, e Roma, giudicar mi udranno.
SCENA TERZA
Marco, Appio, Virginia, Numitoria, Icilio,
Popolo, Littori.
vengo, qual debbe un cittadin; seguaci
molti non traggo; e l’ampio stuol, che cinge
quí gli avversarj miei, giá non m’infonde