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280 agamennone
della svenata figlia mia darammi.

Egisto E se pur fosse il dí; vedova illustre
del re dei re, tu degneresti il guardo
volgere a me, di un abborrito sangue
rampollo oscuro? a me, di ria fortuna
misero gioco? a me, di gloria privo,
d’oro, d’armi, di sudditi, di amici?...
Cliten. E di delitti; aggiungi. — In man lo scettro
non hai di Atride tu; ma in man lo stile
non hai del sangue della propria figlia
tinto e grondante ancora. Il ciel ne attesto;
nullo in mio cor regnava, altri che Atride,
pria ch’ei dal seno la figlia strapparmi
osasse, e all’empio altar vittima trarla.
Del dí funesto, dell’orribil punto
la mortal rimembranza, ognor di duolo
m’empie, e di rabbia atroce. Ai vani sogni
di un augure fallace, alla piú vera
ambizíon d’un inumano padre,
vidi immolare il sangue mio, sottratto
di furto a me, sotto mentita speme
di fauste nozze. Ah! da quel giorno in poi,
fremer di orror mi sento al solo nome
d’un cotal padre. — Io piú nol vidi; e s’oggi
al fin Fortuna lo tradisse...
Egisto   Il tergo
mai non fia che rivolga a lui Fortuna,
per quanto stanca ei l’abbia. Essa del Xanto
all’onde il mena condottier de’ Greci;
piú che virtú, fortuna, ivi d’Achille
vincer gli fa la non placabil ira,
e d’Ettorre il valore: essa di spoglie
ricondurrallo altero e pingue in Argo.
Gran tempo, no, non passerá, che avrai
Agaménnone a fianco; ogni tuo sdegno
spegner saprá ben ei: pegni v’avanza