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atto secondo 289
O madre, è salvo il tuo consorte; il mio

genitor vive. Odo, ch’ei primo a terra
sulla spiaggia balzò; che ratto ei muove
ver Argo, e giá quasi alle porte è giunto.
O madre, e ancor quí stai?
Cliten.   Rimembra, Egisto,
il giuramento.
Elet.   Egisto esce fors’anco
ad incontrare il re dei re con noi?
Cliten. Punger d’amari detti un infelice,
ella è pur lieve gloria, o figlia...
Egisto   Il nome
d’Egisto spiace a Elettra troppo: ancora
d’Egisto il cor noto non l’è.
Elet.   Piú noto,
che tu nol pensi: all’accecata madre
cosí tu il fossi!
Cliten.   Il fero odio degli avi
te cieca fa: ch’ei di Tieste è figlio,
null’altro sai di lui. Deh! perché sdegni
udir quant’egli è pio, discreto, umíle,
degno di sorte e di natal men reo?
Conscio del nascer suo, d’Argo partirsi
volea pur ora; e alla superba vista
del trionfante Agamennón sottrarsi.
Elet. Or, che nol fece? a che rimane?
Egisto   Io resto
per poco ancora; acquetati: l’aspetto
d’uom che non t’odia, e che tu tanto abborri,
al nuovo dí tolto ti fia dagli occhi
per sempre. Elettra, io lo giurai poc’anzi
alla regina; e l’atterrò.
Cliten.   Qual duro
cor tu rinserri! Or vedi; al crudo fiele,
onde aspergi tuoi detti, ei nulla oppone,
che umiltá, pazíenza...


 V. Alfieri, Tragedie - I. 19