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risposta dell’autore 49


l’odio, l’ambizione, la libertá, la vendetta, e tant’altre? In tragedia un amante parla all’amata; ma le parla, non le fa versi: dunque non le recita affetti con armonia e stile di sonetto; bensí tra il sonetto e il discorso familiare troverá una via di mezzo, per cui l’amata che in palco lo ascolta, non rida delle sue espressioni, come fuor di natura di dialogo; né la platea che lo sta a sentire, rida del suo parlare, come triviale e di comune conversazione. Questo mezzo, creda a me, signor Ranieri, che oramai molte tragedie ho scritte, si ottiene principalmente dalla non comune collocazione delle parole. Un breve esempio glie ne addurrò. Nell’Antigone, atto terzo, verso 43, io ho fatto dire a Creonte contro l’uso della sintassi comune:

I’ lo tengo io finora
Quel, che non vuoi tu, trono.

e questa è una delle piú ardite trasposizioni ch’io abbia usate. Ella può credere, che io sapea benissimo che si sarebbe più pianamente detto: Quel trono, che non vuoi. Pure nel recitare io stesso ben cinque sere questi due mezzi versi, sempre badai se ferivano gli orecchi del pubblico; e non li ferivano, ma bensí molta fierezza si rilevava in quel breve dir di Creonte: e nascea la fierezza in parte, se pure non in tutto, dalla trasposizione di quel trono, che pronunziato staccato con maestría dal tu, facea sí che tutta l’attenzione del pubblico, e del figlio minacciato, portasse su quella parola trono, che in quel periodetto era la sola importante. A me parve, ed ancor pare, che ci stia bene, non armonicamente, ma teatralmente; e vorrei lasciarvela finché ad altra qualunque recita accurata teatrale (se mai si fará), io sappia che il pubblico intero l’abbia replicatamente disapprovata per modo duro ed oscuro. Due versi di seguito che abbiano accenti sulla stessa sede, parole fluide, rotonde, e cantanti tutte, recitati in teatro generano cantilena immediatamente; e dalla cantilena l’inverisimiglianza, dalla inverisimiglianza la noja. Giudicar dunque dei versi tragici con l’armonia dei lirici negli orecchi rombante, non si può, o mal si può.

Se la tragedia è cosa nuova, come ella dice, in Italia, vuol dunque stile nuovo. Ed in prova, il Tasso, che pure è quel grande, non fece egli i versi del Torrismondo fluidi, armonici, e dello stesso andamento di quelli dell’immortale Gerusalemme? Pure, prescindendo dal poco interesse di quella tragedia, volendone noi leggere i versi per i soli versi, non ci possiamo reggere. E da che pro-

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