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102 | ottavia |
SCENA QUARTA
Ottavia, Seneca.
Ottav. Morir; sugli occhi loro.
Seneca Che parli?... Oimè! tel vieterá, se il brami...
Ottav. E un sí gran dono da Neron vogl’io? —
Ad altri il chieggo; e spero...
Seneca Erami noto
Nerone assai; ma pur, nol niego, or sono
d’atro stupor compreso. Ognor piú fero
ch’altri nol pensa, egli è.
Ottav. — Seneca, ad alta
impresa, io te nel mio pensiero ho scelto.
S’hai per me stima, amor, pietade in petto,
oggi men puoi dar prova. A me giá fosti
mastro di onesta, e d’incorrotta vita;
di necessaria morte esser mi dei
or tu ministro.
Seneca Oh cieli... Che ascolto?... Morte
d’impeto insano esser de’ figlia?
Ottav. A vile
tanto mi hai tu, che d’immutabil voglia
non mi estimi capace? Or, non è forse
morte il minor dei minacciati danni?
Ch’altro mi resta? di’. — Tu taci?
Seneca ...Oh giorno!
Ottav. Su via, rispondi: altro che far mi avanza?
Seneca ... Mi squarci il cor... Ma, poss’io mai sí crudo
esser da ciò?...
Ottav. Saviezza in te fallace
or tanto fia? Puoi dunque esser sí crudo
da rimirarmi strazíata in preda
della rival feroce, a cui mia vita
poco par, se mia fama in un non toglie?