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atto quarto 145
per me, tu il taci?

Demar.   Acquetati; m’ascolta...
E che non feci? e che non dissi?... Il sento,
sta per te la ragion; ma, il sai, per esso
milita forza, che ragion non ode...
Timol. No, madre, no; poco dicesti, e meno,
e nulla festi. In cor, di nobil foco
non ardi tu; di quell’amor bollente
della patria, che ardir presta ai men forti;
che a te facondia alta, viril, feroce
avria spirato pure. Assai, mel credi,
nel tuo volere e disvoler si affida
or l’accorto Timofane: ei ben scerne
quanto è lusinga al femminil tuo petto
il desio di regnare. In suon di sdegno
minacciosa tuonar t’udia fors’egli?
Ti udia?...
Demar.   Fin dove cimentarsi ardisce
debil madre, l’osai; ma...
Timol.   Greca madre,
debil fu mai, né inerme? Armi possenti,
piú che non merti, hai tu; se non le adopri,
colpa è di te. Quand’egli ai preghi, al pianto,
e alle ragioni resistea; tu stessa
quinci sbandir (ch’ella è tua stanza questa)
dovevi, tu, lo scellerato infame
tirannesco corteggio; al figlio torre
i mezzi tutti di corromper; torgli,
pria d’ogni cosa, arme peggior del ferro,
esca primiera ad ogni eccesso, l’oro.
Sacro estremo voler del tuo consorte,
e di Corinto legge, arbitra donna
d’ogni aver nostro or non ti fanno?
Demar.   Io dirlo,
è ver, potea;... ma, s’ei...
Timol.   Farlo, non dirlo:


 V. Alfieri, Tragedie - II. 10