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26 rosmunda
da quest’ultimo eccidio, e a me tu forse

liberator parrai. Ma, se a te penso,
ch’altro mi sei, che l’uccisor del padre?
Almac. E i rimorsi, e il pentire, e il pianger, nulla
fia che mi vaglia?
Romil.   Ma di ciò qual prendi
pensiero omai? nuocer fors’io ti posso?
L’odio mio, che t’importa? inerme figlia
di spento re, che giova lusingarla?
Almac. D’uomo è il fallir; ma dal malvagio il buono
scerne il dolor del fallo. In me qual sia
dolor, nol sai; deh, se il sapessi! — Io piango
dal dí, che fatto abitator di queste
mura lugúbri sono, ove ti veggio
sempre immersa nel pianto; eppure a un tempo
dolce nell’ira, e nel dolor modesta,
e nel soffrir magnanima... Qual havvi
sí duro cor, che di pietá non senta
moti per te?
Romil.   La tua pietá? m’è duro
troppo il soffrirla... Ahi lassa me!... Spregiarla
pur non poss’io del tutto.
Almac.   Or, pria che nulla
io di te merti, dimmi: è sol cagione
del non andarne ad Alarico, il nome
ch’egli ha di crudo?
Romil.   E d’Alboín la figlia,
nell’accettar l’ajuto tuo, se stessa
non tradisce abbastanza? anco del core
vuol ch’ella schiuda i sensi a te?
Almac.   V’ha dunque
ragion, che parti da tacermi? Il modo
forse cosí dappien servirti...
Romil.   E s’altra
pur ve n’avesse?... Ma, tu sei... — Che parli? —
Quí, crebbi, e quí, presso al mio padre, tomba