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104 agide
Discolpe io do pari all’accuse. Io venni

quí, per mostrare anco ai nemici miei,
ch’io cittadino re, per quanto il possa
soffrir l’altezza d’animo innocente,
spontaneo me sottomettea pur anco
delle leggi all’abuso. — Or, quai che siate,
udite, o voi, le mie parole estreme.
Anfar. A udir, che resta?
Agide   Assai, ma in brevi detti.
Anfar. Nulla dei dire...
Agide   Eforo tu, le leggi
non rimembri, o non sai? Parlano a Sparta
gli accusati, se il vonno. Odimi dunque
tu stesso, e taci. — E voi, Spartani, udite. —
In error sete or da piú cose indotti:
d’Agesiláo l’oprar, d’Anfare i gridi,
di Leonida l’arte, il tacer mio,
tutto a gara ingannovvi. A tal siam giunti
noi tutti omai, che a trar d’error ciascuno,
egli è mestier ch’Agide pera. Io stesso
giá potea di mia mano a me dar morte
libera e degna; ma, il fuggir di vita,
reo presso voi fatto mi avria. Ben certo
era, e sono, in mio cor, che infamia nulla,
bench’io soggiaccia a giudici qualunque,
mai non fia per tornarmene. Lasciarmi
trar vivo io quindi a’ miei nemici innanzi
sceglieva, e stovvi. Che il morir non temo,
vedretel voi: ch’io vendervi ancor cara
potrei mia vita ove il volessi, noto
faravvel tosto di adirata plebe
il terribile grido: in fin, ch’io tengo
piú in pregio assai, che non me stesso, Sparta,
ven fará certi il morir mio. — Vi esorto,
e vi scongiuro, a trarre dal mio sangue
l’util di Sparta, e il vostro. I campi, e l’oro,