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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/161

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atto quinto 155
giuro, cui sparso ha tosto all’aure il vento.

Fra quest’aquile altere ancor regina,
figlia ancora d’Asdrubale, secura
in me medesma io quí non meno stommi,
che se in Cartago, o se in mia reggia io stessi. —
Ma, tu non parli?... disperati sguardi
pregni di pianto affiggi al suolo?... Ah! credi,
che il mio dolor si agguaglia al tuo...
Massin.   Diverso
n’è assai l’effetto: io, di coraggio privo,
men che donna rimango; e tu...
Sofon.   Diverso
lo stato nostro è assai: ma, non l’è il core...
Credilo a me: bench’io non pianga, io sento
strapparmi il cor: donna son io; né pompa
d’alma viril fo teco: ma non resta
partito a me nessuno, altro che morte.
S’io men ti amassi, entro a Cartagin forse
ti avria seguito, e di mia fama a costo
avrei coll’armi tue vendetta breve
di Roma avuta: ma per me non volli
porti a inutile rischio. È omai maturo
il cader di Cartagine: discorde
cittá corrotta, ah! mal resister puote
a Roma intera ed una. Avrei pur troppi
giorni vissuto, se la patria mia
strugger vedessi; e te con essa andarne,
per mia cagione, in precipizio. A Roma
fido serbarti, e al gran Scipion (qual dei)
amico grato; in gran possanza alzarti;
a tua vera virtú dar largo il campo;
ciò tutto or puote, e sol mia morte il puote.
Piú che il mio ben, mi sforza il tuo...
Massin.   Mi credi
dunque sí vil, ch’io a te sorviver osi?
Sofon. Maggior di me ti voglio: esserlo quindi