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atto quarto 259
pur ti riman per me d’amore, un ferro,

senza indugiar, dammi tu stessa. Io sono
in senno appieno; e ciò ch’io dico, e chieggo,
so quanto importi: al senno mio, deh! credi;
n’è tempo ancor: ti pentirai, ma indarno,
del non mi aver d’un ferro oggi soccorsa.
Cecri Diletta figlia,... oh ciel!... tu, pel dolore,
certo vaneggi. Alla tua madre mai
non chiederesti un ferro... — Or, piú di nozze
non si favelli: uno inaudito sforzo
quasi pur troppo a compierle ti trasse;
ma, piú di te potea natura; i Numi
io ne ringrazio assai. Tu fra le braccia
della dolce tua madre starai sempre:
e se ad eterno pianto ti condanni,
pianger io teco eternamente voglio,
né mai, né d’un sol passo, mai lasciarti:
sarem sol’una; e del dolor tuo stesso,
poich’ei da te partir non vuolsi, anch’io
vestirmi vo’. Piú suora a te, che madre,
spero, mi avrai... Ma, oh ciel! che veggio? O figlia,...
meco adirata sei?... me tu respingi?...
e di abbracciarmi nieghi? e gl’infuocati
sguardi?... Oimè! figlia,... anco alla madre?...
Mirra   Ah! troppo
dolor mi accresce anco il vederti: il cuore,
nell’abbracciarmi tu, vieppiú mi squarci... —
Ma... oimè!... che dico?... Ahi madre!... Ingrata, iniqua,
figlia indegna son io, che amor non merto.
Al mio destino orribile me lascia;...
o se di me vera pietá tu senti,
io tel ridico, uccidimi.
Cecri   Ah! me stessa
ucciderei, s’io perderti dovessi:
ahi cruda! e puoi tu dirmi, e replicarmi
cosí acerbe parole? — Anzi, vo’ sempre