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atto quinto 265
ostinato silenzio? — Ancor son padre:

scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma,
(pur ch’io potessi vederti felice!)
capace io son d’ogni inaudito sforzo
per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo
tuttor, (misera figlia!) il generoso
contrasto orribil, che ti strazia il core
infra l’amore, e il dover tuo. Giá troppo
festi, immolando al tuo dover te stessa:
ma, piú di te possente, Amor nol volle.
La passíon puossi escusare; ha forza
piú assai di noi; ma il non svelarla al padre,
che tel comanda, e ten scongiura, indegna
d’ogni scusa ti rende.
Mirra   — O Morte, Morte,
cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda
sempre sarai?...
Ciniro   Deh! figlia, acqueta alquanto,
l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato
contra te piú vedermi, io giá nol sono
piú quasi omai; purché tu a me favelli.
Parlami deh! come a fratello. Anch’io
conobbi amor per prova: il nome.
Mirra   Oh cielo!...
Amo, sí; poiché a dirtelo mi sforzi;
io disperatamente amo, ed indarno.
Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,
né persona il saprá: lo ignora ei stesso...
ed a me quasi io ’l niego.
Ciniro   Ed io saperlo
e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda
esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii
piú ai genitori che ti adoran sola.
Deh! parla; deh! — Giá, di crucciato padre,
vedi ch’io torno e supplice e piangente:
morir non puoi, senza pur trarci in tomba. —