Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/402

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396 parere dell’autore

intenda di stile) che questo non è in nulla simile a quello; e peggiore per avventura lo potrá giudicare, ma non mai giudicarlo certamente lo stesso. E cosí pure, raffrontandolo con altri versi sciolti, di qualunque specie sian essi, non credo che si potrá mai giustamente rassomigliarlo a nessuna. Che se, in fatti, l’Italia non avea, o non ha, una bastante quantitá di eccellenti tragedie, che quanto allo stile prestassero il modello del verso tragico, chiara cosa è, ed indubitabile, che chiunque pretendeva, o pretenderá, di scriver tragedie, si dovesse (come tutto il rimanente, e forse piú ancora d’ogni altra cosa) cercare anche da se stesso lo stile.

Questo verseggiare in somma, qual ch’egli sia, a me pare il men cattivo per tragedia, che si sia finora adoprato in lingua italiana: e ciò dico, perché veramente tale mi pare; non perché io pretenda accertarlo, né farlo altrui credere: e non penso che la lode sia grande; poiché niuna tragedia abbiamo assolutamente finora in Italia, che tutta intera si ardisca porre innanzi per buona quanto allo stile, non che per ottima. Ed io reputo questo come il men cattivo finora, perché mi par di vedere in esso costantemente piú brevitá, piú energia, piú semplicitá, dignitá, e varietá, che in qualunque altro tragico verseggiare finora in Italia tentato da altri; oltre all’assai minor cantilena e trivialitá di suono, che mi sembra pure di scorgervi.

Ma io, tuttavia, lo reputo assai lontano da quella sua possibile perfezione, che l’autore avea piú assai nella mente che nella penna; perfezione, a cui qualch’altro che verrá dopo, approfittandosi forse de’ suoi errori pur tanti, e di alcuna sua scarsa bellezza, potrá piú facilmente poscia condurlo.

Ogni scrittore ha, o dee avere, una faccia sua propria: quella del presente tragico non è la dolcezza in supremo grado; quindi, ogniqualvolta si ammetterá che la dolcezza debba essere il primo pregio del piú terribile genere di poesia che v’abbia, l’autore di queste tragedie si dá interamente per vinto, e si conosce incapace di tentare ciò che per evidenza di ragione a lui non par essere il vero; e che, per l’impero della sua propria natura, a lui riuscirebbe impossibile in questo genere. Ma, se la dolcezza al contrario dee sola regnare sovra ogni altro pregio nella lirica poesia, l’autore ha scritto egli pure i suoi sonettucci pur troppi, e non poche altre rime, su le quali poi si potrá giudicare se egli sapeva cosa sia la dolcezza del verseggiare, e dove e come adoprarla si debba.