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atto quinto 111
non ne tornassi (il che non sia!) costei

per familiar tua ancella abbiti in dono:
travaglio assai nel conquistarla io m’ebbi;
che di vittoria in premio or la mi traggo
da una pubblica giostra, ove agli atleti
doni condegni ai generosi sforzi
erano esposti. Ai vincitor di lievi
agili pugne, premio eran destrieri;
quei, che in piú fero agón di cesti o lotta
vinceano, armenti ne acquistavan pingui:
e in premio inoltre ivi era anco una Donna.
Io, che a sorte la vinsi, arrossirei
di trascurar sí gloríoso lucro:
quíndi, com’io tel dissi, a te il pigliarti
cura si aspetta di costei, ch’io adduco,
rapita no, ma guadagnata a costo
di nobile sudore. Il dí fia forse,
che di un tal don mi applaudirai tu stesso.
Adméto Né in tuo dispregio, né perch’io ti avessi
per mio nemico, a te il destino ascosi
della infelice moglie mia: ma il tacqui,
perché duol mi si fora aggiunto a duolo,
se ai Lari tu d’altr’ospite ito fossi.
Bastava a me giá quel primier mio pianto.
Ma questa donna tua, pregoti, ov’abbi
alcun mezzo, deh vogli, o Re, fidarla
a un qualch’altro fra i Tessali, che immune
sia dai mali ch’io provo. A te non manca
ospiti in Fere: esasperar tu dunque
deh non vogli or la mia recente piaga!
Mai non potrei, mirando entro mia reggia
tal donna, io starmi a-ciglio-asciutto: a infermo
non sovrapporre infermitade: oppresso
dalle sfortune mie giá son, pur troppo!
In qual mai parte della reggia or posta
la giovincella mi verria? (che tale