Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie postume, 1947 – BEIC 1726528.djvu/141

Da Wikisource.

atto secondo 135
lasciato in grembo, io rimaneami solo:

o il credo, almen; poiché niun ente al fianco
mi trovai nel risorgere. Ma intanto,
fra l’esistere e il no stavami, quando
piú ardente assai che di terrena fiamma,
raggio improvviso mi saetta, e a forza
gli occhi miei schiude. Ecco, il sovrano Iddio,
quel giá cotanto a noi propizio Apollo,
qual giá il vedemmo in questa reggia il giorno, †
che non piú a noi mortal pastor, ma eccelso
aperto Nume consentía mostrarsi:
tal egli s’era; e in suo splendor divino
al mio letto appressandosi, con lieve
atto celeste un’alma panacea
mirabile odorifera vitale
alle mie nari ei sottopone appena,
e la benigna sua destra ad un tempo
mi stende, e grida: Adméto, sorgi: i preghi
dei genitori e di tua rara sposa
sono esauditi: or, vivi. — E i detti, e il fatto,
e il mio guarire, e il suo sparir, son uno.
Dal letto io balzo giá: pien d’alta gioja,
ch’ogni voce mi toglie, ecco mi prostro
al Dio, che ancor della immortal sua luce
splendido un solco ergentesi nell’aure
si lasciava da tergo. Indi, nel cuore
il pensier primo che sorgeami, egli era
di abbracciar la mia Alceste; che mai niuna
gioja, cui seco non divida io tosto,
a me par gioja.
Feréo   Oh sacro Apollo! oh, vero
Nume di noi proteggitor sovrano!
L’alte promesse tue ben or ravviso,
che al tuo partir ne festi.
Adméto   Ma tu, padre,
il tutto ancora non udivi: alquanto