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atto quarto 163
tuttora i frali estremi accenti suoi?

Tu, padre, a viva forza mi staccavi
dal collo amato. Ahi me infelice! ed io
non la vedrò mai piú? Quelle funeste
e in un soavi voci sue ch’io udiva,
eran l’ultime dunque?
Feréo   Unico mio
diletto figlio, Adméto, apri, ten prego,
alla ragion la mente. Ercole in somma...
Adméto Fallace amico, a me l’ultimo colpo
Ercole diede. — Ma ben disse in vero,
ch’io mai di quí partirmi non dovria:
starommi io quí per sempre. Il piè lá entro,
come inoltrar potrei? mai piú, no, mai,
in quelle mute soglie dolorose,
ov’io con essa stavami felice,
né i Numi stessi invidiava, amante
riamato d’Alceste; in quelle soglie
vivo mai piú non entrerò. Per poco,
ne andrò di quí chiamando ad alta voce
l’adorato tuo nome: ma l’infausto
talamo orrendo, che giá due ne accolse,
nol rivedrò piú mai; né quel tuo fido
seggio, in cui sempre ti sedevi... Oh vista!
Deserto stassi... Ah, quí spirasti, Alceste:
e forza egli è, ch’io pur quí spiri; e fia
tra breve, il giuro.
Feréo   Ah, no: promesso hai dianzi
tacitamente alla tua stessa Alceste,
di viver pe’ tuoi figli.
Adméto   Oh figli amati!
Figli d’Alceste e miei, venite entrambi
or tra mie braccia, per l’ultima volta.
Tu, donzelletta, vieni; che in te figga
gli estremi baci e di padre e di sposo.
Dell’adorata madre il vivo specchio