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RIME VARIE



I [ii].1

La lotta di Ercole e di Antèo.

Braccia con braccia in feri nodi attorte


  1. Questo sonetto, con uno precedente sul Ratto di Ganimede ed uno seguente intorno a Venere e Marte, che in questa edizione si omettono, fu dall’A. composto nel dicembre del 1776; il trovarsi questo sonetto fra i primi componimenti del canzoniere alfieriano non deve indurci a credere che il nostro Poeta non avesse, fino a quell’anno, tentata mai la poesia lirica; vi si era, anzi, ripetutamente provato, ma non aveva mai ottenuto una parola di approvazione, e tanto meno di lode dal suo severissimo censore il conte Agostino Tana; «sul finir di quell’anno 76, – leggesi al cap. 3° dell’ep. iv dell’Aut. – «ebbi una grandissima e lungamente sospirata consolazione. Una mattina andato dal Tana, a cui sempre palpitante e tremante io soleva portare le mie rime, appena partorite che fossero, gli portai finalmente un sonetto, al quale pochissimo trovò che ridire, e lodò anzi molto come i primi versi ch’io mi facessi meritevoli di un tal nome. Dopo le tante e continue afflizioni ch’io avea provate nel leggergli da più di un anno le mie sconce rime, ch’egli da vero e generoso amico senza misericordia nessuna censurava, e diceva il perché, e il suo perché mi appagava; giudichi ciascuno qual soave nèttare mi giunsero all’anima quelle insolite sincere lodi. Era il sonetto una descrizione del Ratto di Ganimede, fatto a imitazione dell’inimitabile del Cassiani [Modena, 1712-1778] sul ratto di Proserpina [Diè un alto grido, gittò i fiori, e vòlto]... E invaghito della lode, tosto ne feci anche due altri, tratto il soggetto dalla favola, e imitati anch’essi come il primo, a cui immediatamente nella stampa ho voluto poi che seguitassero. Tutti e tre si risentono un po’ troppo della loro serva origine imitativa, ma pure (s’io non erro) hanno il merito d’essere scritti con una certa evidenza, e bastante eleganza, quale insomma non mi era venuta mai fin allora...». A questo genere di poesia icastica ritornò l’A. nel 1788, credo, col son. Casta e bella del par né pur parole e nel 1794 con l’altro: Candido toro in suo nitor pomposo...

    Antèo era, secondo la leggenda, un gigante, re della Libia, figlio di Nettuno e della Terra; egli fermava tutti i passeggieri, li costringeva a lottare e li soffocava col proprio peso, adempiendo, cosí, un vóto da lui fatto d’innalzare un tempio a suo padre con crani umani. Ercole (fu questa una delle sue fatiche) lo atterrò tre volte, ma invano, poiché la Madre, pietosa del figlio, somministrava ad esso forze novelle tutte le volte ch’ei la toccava. Ercole, alla fine, se ne accorse e soffocò Antèo fra le sue braccia. Lucano, nel IV della Farsalia, descrisse largamente la lotta del semidio col gigante; de’ nostri vi alluse Dante, là dove nel 31° dell’Inferno (130 e segg.), scrive:

    Cosí disse il Maestro, e quegli [Antéo] in fretta
    Le man distese e prese il duca mio
    Ond’Ercole sentí già grande stretta.

    Anche le arti figurative si valsero di questo soggetto, come può vedersi da un gruppo di scalpello greco che è nel cortile del Palazzo Pitti a Firenze.

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