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Dialogo Terzo. 99

colla sola immaginazione, che non corrisponde

    A quel ch’appar di fuor quel che s’asconde;

conoscono d’esser giunti troppo presto là, dove avrebbon creduto di non dover mai giunger che troppo tardi. Un cieco, foggtuns’ella, almeno Un che ama, non dovrebbe mai defiderar di vedere. Contento del giudizio di que’ fenfi che amabile un* oggetto gli rapprefeotano, perchè nterrogarne un altro, che può per avventura condannar iobito la iua fcelta, e che fomigliante forfè alla ragione, gli fa vedere il male fenza poi dargli i mezzi di fehi vario? punica confolazione, replicai io che avrebbe quello mi fero nella fu a disgrazia di vederci, è che non farebbe cosi tolto infelice come voi per avventura ve l’immaginate. Come? ripigliò ella. Se il piacer di vedere non lo rendette affatto impulito, non domanderebbe egli di veder per la prima cofa colei, per cui dovea principalmente deliderar di vedere? e veduta che l’avelie, s’accorgerebbe tolto, fe difaggradevol la trovaffe, della fua infelicità; fe pur l’amore riguardo al iie41o non lo rendette cieco un’altra volta. Egli la domanderebbe, rifpos’io, la vedrebbe, e non per quefto la riconofeerebbe. Troppo gran miracolo faria quefto, che l’Amore fteffo non è capace di operare. Udrebbe, fe volete, il fuono di quelle parole, che grate agli orecchi, e più grate al cuore, gli fuonerebbono, e non conofeerebbe la bocca, dond’elle a bearlo ufeiffero. Lo crederete voi? Egli non riconofeerebbe non che altrui, nè pur fe medefimo, i fuoi itela piedi, e le fu e mani per quanto riguard-