Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/106

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100 la divina commedia

     E l’un rispose a me: «Le cappe rance
son di piombo sí grosse, che li pesi
102fan cosí cigolar le lor bilance.
     Frati Godenti fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
105nomati, e da tua terra insieme presi,
     come suole esser tolto un uom solingo
per conservar sua pace; e fummo tali,
108ch’ancor si pare intorno dal Gardingo».
     Io cominciai: «O frati, i vostri mali...;»
ma piú non dissi, ch’a l’occhio mi corse
111un crucifisso in terra con tre pali.
     Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
114e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
     mi disse: «Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenía
117porre un uom per lo popolo a’ martíri.
     Attraversato è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
120qualunque passa, come pesa, pria.
     E a tal modo il socero si stenta
in questa fossa, e li altri del concilio
124che fu per li Giudei mala sementa».
     Allor vid’io maravigliar Virgilio
sovra colui ch’era disteso in croce
127tanto vilmente ne l’eterno esilio.
     Poscia drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
130s’a la man destra giace alcuna foce
     onde noi amendue possiamo uscirci,
senza costringer de li angeli neri
133che vegnan d’esto fondo a dipartirci».
     Rispose adunque: «Piú che tu non speri
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
136si move e varca tutt’i vallon feri,