Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/221

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purgatorio - canto xiv 215

     Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
102verga gentil di picciola gramigna?
     Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,
quando rimembro con Guido da Prata
105Ugolin d’Azzo, che vivetter nosco,
     Federigo Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
108(e l’una gente e l’altra è diretata),
     le donne e’ cavalier, li affanni e li agi
che ne ’nvogliava amore e cortesia
111lá dove i cuor son fatti sí malvagi.
     O Brettinoro, ché non fuggi via,
poi che gita se n’è la tua famiglia
114e molta gente per non esser ria?
     Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
117che di figliar tai conti piú s’impiglia.
     Ben faranno i Pagan, da che ’l demonio
lor sen girá; ma non però che puro
120giá mai rimagna d’essi testimonio.
     O Ugolin de’ Fantolin, sicuro
è il nome tuo, da che piú non s’aspetta
123chi far lo possa, tralignando, oscuro.
     Ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta
troppo di pianger piú che di parlare,
126sí m’ha nostra ragion la mente stretta».
     Noi sapevam che quell’anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
129facevan noi del cammin confidare.
     Poi fummo fatti soli procedendo,
folgore parve quando l’aere fende,
132voce che giunse di contra dicendo:
     «Anciderammi qualunque m’apprende»;
e fuggío come tuon che si dilegua
135se subito la nuvola scoscende.