Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/50

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44 la divina commedia

     Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui giá letto il nome;
66però fu la risposta cosí piena.
     Di subito drizzato gridò: «Come?
dicesti ‛ elli ebbe ’? non viv’elli ancora?
69non fiere li occhi suoi il dolce lome?»
     Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io faceva dinanzi a la risposta,
72supin ricadde e piú non parve fuora.
     Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto
75né mosse collo né piegò sua costa;
     e «Se,» continuando al primo detto
«s’elli han quell’arte» disse «male appresa,
78ciò mi tormenta piú che questo letto:
     ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
81che tu saprai quanto quell’arte pesa!
     E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sí empio
84incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?»
     Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
87tali orazion fa far nel nostro tempio».
     Poi ch’ebbe sospirato e ’l capo scosso,
«A ciò non fu’ io sol,» disse «né certo
90senza cagion con li altri sarei mosso;
     ma fu’ io solo, lá dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
93colui che la difesi a viso aperto».
     «Deh, se riposi mai vostra semenza,»
prega’ io lui «solvetemi quel nodo
96che qui ha inviluppata mia sentenza.
     El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
99e nel presente tenete altro modo».