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90 DE VULGARI ELOQUENTIA.


all’Opra inconsumabile, e nell’ora stessa che vi si poneva mano, al mondo s’usava un solo linguaggio (Inf., xxxi, 77); una eademque loquela deserviebant ad opus: Vulg. El., i, 7. Ma siffatto linguaggio, per mutazioni ed accrescimenti che debba aver ricevuto ne’ lunghissimi anni che visse Adamo, non venne per questo a cambiare di original forma e di natura; forma e natura che non si cambia da qualsiasi lingua Volgare o parlata, quando rimane continua la stessa progenie, che l’ebbe sortita in privilegiato retaggio e concreata. Opera naturale è, ch’uom favella (Par. xxvi, 130), dacchè tal facoltà gli venne largita da Dio, Natura universale. E ben potè indi l’uomo valersene a formare primamente quel linguaggio, che poscia si denominò Ebraico; nè, quanto alla presente materia, v’ha dunque contraddizione ne’ concetti danteschi. Se non che questa Lingua primitiva od Ebraica, essendo Volgare e usitata da tutta l’umana Famiglia (Vulg. El., i, 1), doveva soggiacere alle vicende, cui per legge od ordine naturale obbediscono tutte le lingue Volgari. Difatti, secondo che Dante vien ragionando nel suo Convito al proposito del nostro Volgare, quest’è instabile e corruttibile. Onde vedemo nelle città d’Italia, se bene volemo agguardare, da cinquant’anni in qua molti vocaboli essere spenti e nati e variati. Quindi se il picciolo tempo così trasmuta, molto più trasmuta lo maggiore. Sicch’io credo, che se coloro che partiro di questa vita, già sono mille anni, tornassero alle loro cittadi, crederebbono la loro città essere occupata da gente strana per la lingua dalla loro discordante. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in un libro ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza: i, 6. Ed egli poi attese la promessa con raffermare: «Omnis nostra loquela.... per locorum temporumque distantias variari oportet.... Quapropter audacter testamur, quod si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modemis Papiensibus loquerentur: nec aliter mirum videatur quod dicimus, quam prospicere juvenem exoletum, quem exolescere non vidimus:» Vulg. El., i, 9.