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brare con la sua parola quella bell’anima, così giovanilmente innamorata delle cose grandi. Senz’avvedersene egli si preparava prima certe frasi e certe immagini che gli parevano più efficaci a dilettarla e a farle battere il cuore. Una contrazione quasi di pianto infantile, leggerissima e dolcissima, che le era passata sul viso una sera che egli descriveva l’atto regalmente gentile con cui Emanuele Filiberto aveva carezzata la fronte del conte di Siegelberg ferito a morte, gli era rimasta impressa nell’animo per varii giorni. Come mai era nata quella bell’anima in quella casa così umile, fra quella gente mediocre, in mezzo a una città dominata dagli stranieri, dove nulla era accaduto da tanti anni che potesse scuotere e innalzare gli spiriti? La sua stessa figura non riportava in nulla nè il padre nè la madre, e contrastava in mille modi con tutta la gente e con tutte le cose che aveva d’intorno. Quella era veramente una nobiltà pura e legittima, stampatale nell’anima e sulla fronte da Dio. Certo, egli non sentiva punto amore per lei. Solamente la sua voce gli cagionava un’illusione singolare: lo accompagnava alle volte giù per la scala, lo seguitava per la via, gli si faceva sentire ora come un’eco lontana, ora come una nota staccata che gli suonava tutt’a un tratto nell’orecchio, e non di rado pareva che gli empisse per qualche minuto tutta la stanza come la vibrazione prolungata ed eguale d’una corda sonora. E allora gli sembrava che, rivedendola, avrebbe sentito il bisogno di sorriderle e di parlarle con una cortesia più familiare e più affettuosa di quella