Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/195

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la ginevra italiana 181

derle scritte nei muri, incise negli alberi, tracciate sulle vie, segnate per aria, e che avessero quasi il senso d’un rimprovero e d’un avvertimento: — Raccogliti, ricorda, medita! Non è questo un luogo dove tu debba far faccia da ridere, figlio dei persecutori! — Che volete? Qualche cosa sulla coscienza, un minimo che, leggerissimo, me lo sentivo anch’io; tanto che i saluti e gli sguardi benevoli che ci rivolgevano i campagnuoli, incontrandoci, mentre scendevamo, mi sembravano quasi una gentilezza immeritata. Insomma, tutta quella gente avrebbe bene avuto un po’ di diritto di darci quattro tanagliatine tra la spalla e il gomito, delicatissime, s’intende, per pura formalità di contraccambio. Tutti i putti che vedevo seduti davanti agli usci delle case, mi ricordavano quei cinquanta poveri bimbi dei Valdesi fuggiaschi da Pragelato, trovati morti gelati nella neve, gli uni nelle loro cune, gli altri fra le braccia delle madri irrigidite, lassù, sui monti della valle di San Martino, nella quaresima del 1440. Una ragazza bionda e graziosa, sui quattordici anni, che entrava in casa con un gran pane sotto il braccio, mi fece pensare a quella piccola eroina, che sorpresa dai soldati del conte della Trinità in una caverna, dove s’era rifugiata con l’avolo centenario, e visto trucidare il suo vecchio, spiccò un salto per scampare alle braccia degli uccisori, e rotolò morta sformata in fondo a un burrone. Una coppia matrimoniale, un po’ più in là, un ometto sulla cinquantina, un po’ curvo, che dava il braccio a una signora malata, di aspetto risoluto in-