Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/260

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246 le termopili valdesi



Avremmo voluto trattenerci ancora un pezzo in quella pace profonda; ma vedendo che i tappeti d’oro distesi qua e là fra i castagni sparivano l’un dopo l’altro rapidamente, ci mettemmo in cammino per il ritorno. Ripassammo sotto le roccie enormi, tornammo a sentire quel fragoroso diluvio d’acque. La valle era già rotta da vaste ombre nere, in cui si vedevano appena le case, come macchie più nere; le cime petrose dei monti erano di color rosa e di porpora; la via, anche più solitaria che la mattina. Per due miglia di cammino, non udimmo che il tintinnio di qualche sonaglio di pecora o di capra, invisibili, e a grandi distanze, il canto d’una gallina o il latrato d’un cane, che risonavano in tutta la valle, come ripercossi da cento echi. Risalutammo Serre, rivedemmo la roccia della fata.... Due dei quattro viaggiatori avevan già l’aspetto e l’andatura dei due crociati dell’arcidiacono di Cremona, dopo la disfatta famosa delle Rocciaglie. Ma la vista della piazzetta di Angrogna li rimise su, come l’apparizione d’una bella signora alla finestra. Là il signor Bonnet ci fece vedere due curiose pietre storiche: una rotonda, confitta nel suolo, sulla quale è tradizione che il popolo facesse batter le mele (senza buccia) ai debitori insolventi, come già facevan i fiorentini ai falliti sul lastrone di Mercato nuovo; l’altra, della forma d’una lastra da tavola, sostenuta da un pietrone diritto, intorno