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il braccio. Ci sarà o non ci sarà il Monviso stamani? Sarà tutto ammantato, o solamente incoronato, o avrà le spalle coperte e il capo nudo? Con che grillo si sarà levata sua maestà? A che ora potrò riverire il Cornour, il Frioland, il Servin, e le altre eccellenze canute? Che spettacolo avremo a Corte quest’oggi? Il terrazzo è chiuso da una porta. Alle volte, apro la porta del paradiso: è uno splendore immenso di verde, di azzurro, di neve, di sole, e come l’effetto d’un prodigio, che abbia spinto le Alpi innanzi di dieci miglia. Altre volte, è un malumore universale, una musoneria così chiusa e cocciuta, che lascio subito ogni speranza: non mi attento neanche a domandare il più piccolo favore. Certe altre mattine, invece, è una mutabilità di umore, un via vai di nuvoloni, un errare incerto di fiocchi bianchi e di grandi veli grigi lacerati, un lavorìo, un fare e disfare inquieto e faticoso, col quale mi sembra che la natura risponda alla mia domanda: — Non so.... vedremo.... sto cercando.... vede bene che non sto con le mani in mano.... Ripassi fra un’ora. — Ma io resto là, appunto per veder le prove, coi gomiti sulla ringhiera del mio palchetto, fino all’ultima scena del quint’atto, in cui tutto viene in chiaro e s’aggiusta.



Sotto il terrazzo passa una stradetta, fiancheggiata da un muricciolo, la quale forcheggia in