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283 ANNALI D'ITALIA, ANNO LXIX. 284

spettacolo commosso il popolo protestò di non volerlo sofferire; ma scioccamente, perchè tutto si rivolse poscia in danno della città e rovina maggior di Vitellio. Trovavasi in questo mentre un’assemblea de’ primi senatori, cavalieri ed uffiziali militari presso Flavio Sabino1, trattando del buono stato di Roma, colla persuasione che veramente fosse seguita, o che seguirebbe la rinunzia di Vitellio. Alla nuova dell’abortito trattato, fu creduto bene che Sabino andasse al palazzo per esortare o forzar Vitellio a cedere. Andò egli accompagnato da una buona truppa di soldati; ma per via essendosi incontrato colla guardia de’ Tedeschi, si venne ad un picciolo combattimento. Salvossi Sabino nella rocca del Campidoglio con alcuni senatori e cavalieri, e co’ due suoi figliuoli Sabino e Clemente, e con Domiziano figlio minore di Vespasiano. Quivi assediato fece una meschina difesa; v’entrarono i Germani, ed appiccato il fuoco al Campidoglio (non si sa da chi), si vide ridotto in cenere quell’insigne luogo, con perir tante belle memorie che ivi erano: accidente sommamente compianto dal popolo romano. Fuggirono di là Domiziano, i figli di Sabino; non già l’infelice Sabino, che, preso dai Germani insieme con Quinzio Attico console, fu condotto carico di catene davanti a Vitellio. Si salvò Attico; ma Sabino, uomo di gran credito e di raro merito, e fratello maggiore di Vespasiano, sotto le furiose spade di que’ soldati perdè la vita: del che più che d’altro s’afflisse dipoi Vespasiano, ma non già Muciano che il riguardava come ostacolo all’ascendente della sua fortuna.

Antonio Primo, informato di queste lagrimevoli scene, mosse allora il suo campo alla volta di Roma, dove si trovò all’incontro la milizia di Vitellio, e lo stesso popolo in armi. Giacchè egli e Petilio Cereale non vollero dar orecchio alle proposizioni di qualche accordo, varii [p. 284]combattimenti seguirono, favorevoli ora all’una ed ora all’altra parte; ma finalmente rimasero superiori quei di Vespasiano. Furono presi varii luoghi di Roma, e il quartiere de’ pretoriani, commessi molti saccheggi colle consuete appendici, e strage di tanta gente, che Giuseppe2 e Dione la fanno ascendere a cinquantamila persone3. Veggendosi allora a mal partito Vitellio, dal palazzo fuggì nell’Aventino, con pensiero di andarsene nel dì seguente a trovar Lucio suo fratello a Terracina. Ma sul falso avviso che non erano disperate le cose, tornò al palazzo, e trovato poi che ognun se n’era fuggito, preso un vile abito, con una cintura piena d’oro, andò a nascondersi nella cameretta del portinaio, oppur nella stalla de’ cani, da più di uno de’ quali fu anche morsicato. A nulla gli servì questo nascondiglio. Scoperto da un tribuno, per nome Giulio Placido, ne fu estratto, e con una corda al collo, colle mani legate al di dietro, fu menato per le strade, dileggiato, e con picciole punture trafitto in varie forme dai soldati, ed ingiuriato dal popolo, senzachè alcuno compassion ne mostrasse; anzi correndo ognuno a rovesciar le sue statue sotto gli occhi di lui. Credette di fargli servigio un soldato tedesco, per levarlo da tanti obbrobrii, e gli lasciò sulla testa un buon colpo: il che fatto, si ammazzò da sè stesso, ovvero, come si ha da Tacito, fu ucciso dagli altri. Terminò la sua vita Vitellio, coll’essere gittato giù per le scale gemonie; il cadavero suo fu coll’uncino strascinato al Tevere, e la sua testa portata per tutta la città. Era in età di cinquantasette anni; e questo frutto riportò egli dalla sconsigliata sua ambizione, alzato da chi nol conosceva a sì sublime grado, ed abborrito da chi sapea di sua vita, riguardandolo per troppo indegno dell’imperio, e certamente incapace di sostenerlo con tanto perversi

  1. Dio., lib. 65. Tacitus, Histor., lib. 3, cap. 69.
  2. Joseph., de Bel. Jud., lib. 4, cap. 42. Dio., lib. 65.
  3. Sueton., in Vitellio, cap. 16.