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289 ANNALI D’ITALIA, ANNO LXX 290

comandò che se ne ricercassero diligentemente quelle copie che si potessero ritrovare, e di nuovo s’incidessero in altre tavole. Parimente ordinò Vespasiano che fosse restituita la buona fama a tutti i condannati al tempo di Nerone1, e sotto i tre susseguenti Augusti, e la libertà a tutti gli esiliati che si trovassero vivi; e che si cassassero tutte le accuse de’ tempi addietro. Cacciò eziandio di Roma tutti gli strologhi, gente perniciosa alle repubbliche, quantunque egli non disprezzasse quest’arte vana, e tenesse in sua corte uno di tali pescatori dell’avvenire, stimandolo il più perito degli altri. E si sa ch’egli, a requisizione di un certo Barbillo strologo, concedette al popol di Efeso di poter fare il combattimento appellato sacro: grazia da lui non accordata ad altre città.

Due guerre di somma importanza ebbero in questi tempi i Romani, l’una in Giudea, l’altra nella Gallia e Germania. Diffusamente è narrata la prima da Giuseppe Ebreo; l’una e l’altra da Cornelio Tacito. Io me ne sbrigherò in poche parole. Famosissima è la guerra. Avea quel popolo, ingrato e cieco, ricompensato il Messia, cioè il divino Salvator nostro, di tanti suoi benefizii, con dargli una morte ignominiosa; avea perseguitata a tutto potere fin qui la nata santissima religione di Cristo. Venne il tempo, in cui la giustizia di Dio volle lasciar piombare sopra quella sconoscente nazione il gastigo, già a lei predetto dallo stesso Signor nostro2. S’erano ribellati i Giudei all’imperio romano, e per una vittoria da loro riportata contro Cestio, parea che si ridessero delle forze romane3. Vespasiano, irritato forte contra di loro, spedì Tito suo figliuolo nella primavera dell’anno presente per domarli. Gerusalemme era in quei tempi una delle più belle; forti e ricche città dell’universo, perchè i Giudei, sparsi in [p. 290]gran copia per l’Asia e per l’Europa, faceano gara di divozione per mandar colà doni al tempio e limosine di danari. Per dar anche a conoscere Iddio più visibilmente che dalla sua mano veniva il gastigo, Tito andò ad assediarla in tempo che un’infinità di Giudei era, secondo il costume, concorsa colà per celebrarvi la Pasqua: nel qual tempo appunto aveano crocifisso l’umanato figliuol di Dio. Che sterminato numero di essi per giusto giudizio di Dio si trovasse ristretto in quella città, come in prigione, si può raccogliere dal medesimo loro storico Giuseppe, il quale asserisce che, durante quell’assedio, vi perì un milione e centomila Giudei, per fame e per la peste. Sanguinosi combattimenti seguirono; ostinato quel popolo mai non volle ascoltar proposizioni di pace e di arrendersi. Avvegnachè riuscisse al copiosissimo esercito romano di superar le due prime cinte di muro di quella città, la terza nondimeno, più forte dell’altre, fu sì bravamente difesa dagli assediati, che Tito perdè la speranza di espugnar la città colla forza, e si rivolse al partito di vincerla con la fame. Un prodigioso muro con fosse e bastioni di circonvallazione fatto intorno a Gerusalemme tolse ad ognuno la via a fuggirsene. Però una orribil fame, e la peste sua compagna, entrate in Gerusalemme, vi faceano un orrido macello di quegli abitanti; i quali anche discordi fra loro e sediziosi, piuttosto amavano di vedere e sofferire ogni più orribile scempio, che di suggettarsi di nuovo al popolo romano. Non si può leggere senza orrore la descrizione che fa Giuseppe di quella deplorabil miseria, a cui difficilmente si troverà una simile nelle storie. Immense furono le ruberie e le crudeltà di quei che più poteano in quella città; le centinaia di migliaia di cadaveri accrescevano il fetore e le miserie di coloro che restavano in vita; faceano i falsi profeti e i tiranni interni più male al popolo che gli stessi Romani. Ma nel dì 22 di luglio

  1. Dio., in Excerptis Valesianis.
  2. Joseph., lib. 5 de bello Judaico.
  3. Tacitus, Histor., lib. 5.