Pagina:Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/593

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intera lo stesso Lattanzio3076. La mattina dunque del dì ultimo d’aprile ben per tempo mise Massimino in ordinanza di battaglia le sue milizie: il che riferito nel campo di Licinio, anche egli fu forzato a schierar le sue. Era quella campagna sterile e fatta apposta per sì brutta danza: le due armate stavano già a vista l’una dell’altra, e chi ansioso e chi timoroso di venire al cimento: quando i soldati di Licinio, cavatisi di testa gli elmi, e colle mani alzate verso il cielo, a dettatura de’ loro uffiziali, intonarono per tre volte coll’imperadore la preghiera suddetta al formidabil Dio degli eserciti, supplicandolo della forte sua assistenza in quel bisogno, con tal mormorio, che anche si udì dalla nemica armata. Ciò fatto, rimessi in testa gli elmi, imbracciano gli scudi, e pieni di coraggio stanno con impazienza aspettando il segno della battaglia. Seguì un abboccamento fra i due imperadori, ma senza che Massimino volesse piegarsi a condizione alcuna di pace, perchè lusingato dalla speranza di veder desertare tutto l’esercito di Licinio alla sua parte, per esser egli in concetto di principe assai liberale verso le persone militari. Anzi sognava con tanto accrescimento di forze di poter poi procedere contra di Costantino, e di abbattere dopo l’uno anche l’altro. Ed eccoti dar fiato alle trombe, accozzarsi amendue le armate3077. Parve che quei di Massimino non sapessero mettere mano alle spade, nè scegliere i lor dardi. Di qua e di là correa Massimino per animarli alla pugna, pregando, promettendo ricompense, ma senza essere ascoltato. Per lo contrario quei di Licinio come lioni menavano le mani, facendo, benchè tanto inferiori di numero, orribil macello dei nemici, i quali sembravano venuti non per combattere, ma per farsi scannare. Già era seguita una fiera strage di loro, quando Massimino, accortosi che la faccenda passasse diversamente dal suo supposto, cadutogli il cuor per terra, gittò via la porpora; e presa una veste da servo, e datosi alla fuga, andò a passare il mare allo stretto di Bisanzio. Intanto l’una metà del suo esercito restò vittima delle spade, l’altra o si rendè o si salvò colla fuga3078. Le stesse sue guardie si diedero al vincitore Licinio. Tal diligenza fece Massimino in fuggire, che nel termine di una notte e di un dì, cioè nella sera del giorno primo di maggio pervenne (certamente coll’aiuto delle poste) a Nicomedia in Bitinia, lontana dal luogo della battaglia suddetta cento sessanta miglia. Quivi nè pur credendosi sicuro, prese seco in fretta i figli, la moglie e pochi de’ suoi cortigiani, e ritirossi nella Cappadocia, dove, dopo aver messo insieme, come potè, un corpo di soldatesche, in fine ripigliò la porpora; e tutto furore fece uccidere molti de’ suoi sacerdoti e profeti, accusandoli come autori delle sue disgrazie coi loro falsi oracoli. Ma Licinio, senza perdere tempo, con una parte del vittorioso esercito suo, ricuperata che ebbe assai facilmente la Tracia, passò il mare, e s’impadronì della Bitinia. Trovavasi egli nella città di Nicomedia nel dì 13 di giugno3079, quando, riconoscendo dal Dio dei cristiani l’avvenimento felice delle sue armi, a nome ancora dell’Augusto Costantino, pubblicò un editto, con cui annullò tutti gli altri emanati contra di essi cristiani, e loro concedette la libertà della religione e la fabbrica della chiese. Inseguì poscia Licinio con vigore il fuggitivo Massimino, il quale, troppo tardi conosciuto il gastigo di Dio per l’ingiustizia e barbarie sua contro chi professava la legge di Cristo3080, pubblicò anch’egli un editto in lor favore: con che cessò la fiera carnificina che dianzi si faceva degl’innocenti sudditi