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tutto il giorno nella biancheria della casa e in qualche cuffietta o babbuccia di bambini; e spesso, quando il sole batteva vivo sulle impannate di carta, come se si movesse in lei più forte il senso della vita, lasciavasi condurre a intonare le litanie con una voce che la sentivano dal mezzo della campagna.

La domenica accorrevano le ragazze dei dintorni a trovarla. Sedute intorno al letto messo pulito, in bianco, come quello di una sposa, ciascuna contava la sua, o invocava un’orazione speciale per i suoi malati. Tutte poi se ne andavano coll’animo edificato, come quando si vede un castigo immeritato santificare un’anima.

Anche Arabella veniva spesso a tener compagnia all’inferma. Povera, illetterata, chiusa nel breve circolo delle sue sensazioni casalinghe, Angelica s’incontrava coll’anima viva e penetrante di Arabella in un terreno subito fuori del mondo, dove le anime parlano tutte lo stesso linguaggio, dove la scienza non è che una illusione perduta, per chi ha perduto il suo tempo ad acquistarla, dove i dolori e i patimenti di quaggiù hanno una ragione, anzi la sola ragion d’essere.

Arabella, prima di dire l’ultima parola, volle consultare come un oracolo l’inferma, che molte volte le aveva parlato con una chiaroveggenza meravigliosa. Dio si manifesta nelle anime che soffrono, più che nella luce del sole.

Per il viale dei salici giunse al cascinale un dopo pranzo, mentre la gente era sparsa sui lavori della campagna. Entrò, come soleva, salì la scaluccia di legno, spinse l’uscio della camera.

Angelica, rivedendola, battè le due mani e gridò: