Pagina:Arabella.djvu/127

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marsi in un santo padre, per quanto Arabella e papà Tognino fossero egualmente interessati a salvare un’anima.

Nelle prime settimane del suo matrimonio, quando si trovò nella piena balìa di quell’uomo, giovane, robusto, impetuoso, Arabella provò la paura dell’agnellino caduto nelle zampe dell’orso. Man mano che imparava a conoscere suo marito e che scendeva a toccare la materialità di quella scorza vuota, un senso di compassione indefinita si mescolava ai suoi timori e fuggevolmente una voce del cuore domandava, se essa avrebbe mai saputo compiere la santa opera di redenzione a cui Dio l’aveva chiamata. Nei momenti in cui era sicura di non esser vista, dal suo cuore umiliato e gonfio si sprigionavano delle lagrime, che ella sentiva affacciarsi alle palpebre, scendere non richieste, quasi non avvertite; ma poi un buon momento di Lorenzo (che non mancava il brio naturale) o le buone parole di suo suocero, che nutriva le stesse speranze, riconducevano giorni più sereni. Nelle sue fervide preghiere alla Madonna essa potè illudersi di amare suo marito, verso il quale slanciavasi qualche volta con impeti veramente generosi, che non trovavano che una sola corrispondenza... sempre quella, la più semplice, quella che l’avviliva di più.

Ma verso la metà di novembre avvenne un caso che produsse nel suo cuore il miracolo. La luce dissipò il freddo e le tenebre, e la vita che prima procedeva a caso, a balzelloni, per un terreno rotto, seminato di sassi, si trovò aperta una bella strada maestra davanti. Il dottor Taruzzi assicurò che c’era un erede. Essa era madre!