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delle quali con dei segni storici in fronte, l’una appoggiata all’altra per non cadere, con una rete di anditi e di corridoi e di cortiletti e di buchi da far venire in mente i meandri d’un formaggio lodigiano male assortito.

Lorenzo stese le gambe sul divano e accese un sigaro per abbandonarsi meglio al corso dei suoi pensieri.

Il mal tempo rumoreggiava e fiammeggiava sopra i tetti neri delle case vicine e sopra i tettucci logori d’un cortiletto chiuso come il fondo d’una torre, in cui tre o quattro canalacci di ferro versavano il diluvio universale con un frastuono d’inferno.

L’acqua, passando tra le fessure d’una finestra lunga e mal chiusa, cominciò a versare un rigagnolo che si distese a poco a poco in una tortuosa biscia nel mezzo della stanza. La lampadina a cui il padrone lesinava il petrolio, ben presto cominciò a crocchiare, a mandare dei guizzi, diffondendo ombre e puzzo, ombre in cui gli involti appesi ai ganci parevano i corpi degli strozzati di casa.

Il Botola sotto quella casa del diavolo aveva coraggio di dormire come un bambino. Il vecchio batteva il selciato dalla mattina alla sera, sempre sulla traccia d’un piccolo buon affare, e al primo stendere le gambe nel canile l’accoglieva il sonno del giusto. Il suo russare pareva il verso d’un cane malato: e due volte Lorenzo gli dette sulla voce. Il vecchio si voltò sul fianco e ripigliò la musica in nota di contrabasso.

A poco a poco Lorenzo potè mettere un ordine ne’ suoi pensieri. Il pensare non era il suo forte, ma questa volta capì che stava per giocare una carta