Pagina:Aretino, Pietro – Il primo libro delle lettere, 1913 – BEIC 1733141.djvu/303

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trasse fuora de la camera a cinque ore di notte, correndo dietro a non so chi, che andava cantando per il corridore di palazzo «O mia ceca e dura sorte», credendo che burlasse le triste nuove che di campo aveva avute Sua Beatitudine; e, non ascoltando Acursio, che gli diceva tuttavia: — Padre santo, andate a letto! — ruppe la testa al suo scalco, vecchio di sessantanni, che, per essere corso al romore, stimò che egli fosse stato il musico (*). Egli è suto a tutte le scisme, a tutti i giubilei e a tutti i concili. Conobbe la tal puttana. Vidde impazzir Iacobaccio da Melia. Sa l’origine de la sua rogna e ogni altra ribaldarla de la corte. Onde io giudico che si venderia non meno per cronica che per istatua. Insomma egli è la bontá, l’amicizia e la piacevolezza degli uomini. Né cambiarci stato coi felici, mentre lo veggo in conclavi col mio Ferraguto, il qual fu per crepare, quando intese che per la secchia d’acqua, che gittò sul mostaccio del Zicotto, il detto gli sbarbò tutto il lato manco del viso, facendogli mille pezzi de la pelandra, benché l’ira scemò un mese prima che i peli crescessero. La conclusione è ch’io vorrei vivermi con lui e con la magnifica vostra dolcezza, cascando tuttavia a l’indrieto per la risa dei nostri ragionamenti. Ma, non potendo avervi sempre, tali sono le facende che avete nel governo comune, perché non venir qui talvolta, sapendo pure che gli spassi onesti sono il core de l’ozio dei buoni? Benché, venendo e non venendo, sono obligato a l’affezzion che per natura, per costume e per nobiltá portate a me e ai miei scritti.

Di Venezia, il 22 di novembre 1537. <l) I due aneddoti su Giulio 11 non sono riferiti in A/V vennero aggiunti in A/V