Pagina:Aretino, Pietro – Il primo libro delle lettere, 1913 – BEIC 1733141.djvu/387

Da Wikisource.

savi, che andarono sotto il giogo. Regolo rimbambito lo maladisse piú di una volta, tosto che senti ne la botte le diaboliche punte dei chiodi. Buon per Grecia e per Troia, se Menelao castronaccio, facendo a senno di monna Vergogna, lasciava Elena al suo berton Paris! Insomma io somiglio l’onore, che, per esser una beretta a tagliere, non s’usa piú, a un vecchio riccone avarone, che prima starebbe a patto di crepare che spenderne uno per cavarsi le voglie. E la vergogna è simile a una feminaccia bene istante, che non istima il rimanersi brulla per trarsi ogni apetito. Io mi credo che l’onore sia il buffone con cui il mondo intertene i cieli, i quali si scompisciano quando egli si corruccia per non trovar sede degna del suo culo, torcendo il grifo fino a la cattedra di Moise: egli è il can de l’ortolano, che, nel risentirsi al «Tu ne menti!», ci lascia spesso del sangue. E la vergogna, tacendo fino al «Poltrone!», non vede mai torcersi un capello. Ben abbia ella, che pertutto si asetta! Che spasso è l’udirlo parlare a fette! Egli sputa in giro, camma largo, guarda basso e sempre alza gli occhi e stringe i labbri, menando piú spuzza che cento paia di nozze, facendo piú carestia del suo lasciarsi vedere che mille papi. E pure, in capo de le fini, la vergogna è il suo purgatorio: «Ila gli fa di strane burle, e, atravcrsandosigli fra i piedi, lo sbatte giú a gambe levate, tosto che egli si pavoneggia la gravita del suo piviale. Dite che il «to/um contituns» se ne vada a Roma, e poi mi favelli. A punto in corte lo brama chiappar la sua nimica, per cavarlo di cacarie, perché il poltrone non ha credito se non coi morti di fame e coi civettini, i quali cercano di mettersi inanzi per suo mezzo. Egli pare al di d’oggi un profumieri fallito, che balena per la chiesa, che l’assicura dai birri. Ma la vergogna ne incaca Pasquino coi suoi distici e coi suoi sonetti. Perciò attendete a far ciò che vi vien bene, e chiacchiari chi vòle. E, avendovi san Giobbe fatto suo giardiniere, sappiate goder l’uffizio, in ghirlandando la testa de le vostre muse con le rose eterne degli orti suoi, al dispetto di ser Priapo, padron di quegli. Or eccovi il sonettino.

Di Venezia, il 20 di decembre 1537.