Pagina:Ariosto, Ludovico – Lirica, 1924 – BEIC 1740033.djvu/110

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104 iv - capitoli

     E con speranza che giovar non poco
mi devess’il contrario, io venni in parte
dove i pianti e le stride aveano loco.
     Il ferro, il foco e l’altre opre di Marte
veder in danno altrui, pensai che fosse
a risanar un misero bona arte.
     Io venni dove le campagne rosse
eran del sangue barbaro e latino,
che fiera stella dianzi al furor mosse;
     e vidi un morto e l’altro sí vicino,
che, senza premer lor, quasi il terreno
a molte miglia non dava il camino.
     E da chi alberga tra Garonna e ’l Reno
vidi uscir crudeltá, che ne devria
tutto il mondo d’orror rimaner pieno.
     Non fu la doglia in me però men ria;
né vidi far d’alcun sí fiero strazio,
che paregiasse la gran pena mia.
     Grave fu il lor martir, ma breve spazio
di tempo die’ lor fin. Ah crudo Amore,
che d’accrescermi il duol non è mai sazio!
     Io notai che ’l mal lor li traea fuore
del mal, perché sí grave era, che presto
finia la vita insieme col dolore.
     Il mio mi pon fin su le porte, e questo
medesmo ir non mi lascia, e torna indrieto
e fa che mal mio grado in vita resto.
     Io torno a voi, né del tornar son lieto
piú che del partir fussi e duro frutto
de la partita e del ritorno mieto.
     Avendo, dunque, de’ rimedi il tutto
provato ad un ad un, fuor che l’absenza,
ch’al fin provar m’avea il mio error indutto,
     e visto che mi noce, or resto senza
conforto ch’altra cosa piú mi vaglia;
ch’invan di tutte ho fatto esperienza.