Pagina:Ariosto, Ludovico – Lirica, 1924 – BEIC 1740033.djvu/284

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278 appendice prima

11
     Tutta quella beltá ch’il ciel comparte
al mondo in mille lustri, ella possede.
Degno non è di celebrarla in carte,
chi non ha del divin ch’in lei si vede,
o almen qualche sembianza in qualche parte,
sovra l’uso mortal alzando il piede;
perciò ch’ogni beltade a lei somiglia;
né bello è quel che forma indi non piglia.
12
     Da lei piglia la forma ogni beltade;
da lei tutte le grazie hanno il valore;
da lei quante oggi son cose pregiate,
prendon le forze e ’l natural vigore;
né puonno esser giá mai degne e lodate,
se per mezzo non vien del suo favore,
ond’è il mio dir ingiurioso a lei,
ché, non sendo immortal, tacer dovrei.
13
     Tacer debbo e vorrei; ma pur mi sento
inebriato d’una tal dolcezza
che, mentre di lei penso, il cor contento,
anzi beato, sale a tanta altezza,
ch’a mal mio grado canto, e non pavento,
mortal, a dir d’un’immortal bellezza;
anzi con l’ale de’ pensieri al cielo
mi porta il mio desir, la gioia e ’l zelo.
14
     Ben temo ch’io farò come chi suole
alla vista del sol perder il lume;
e che mi debbia alfin questo mio Sole,
come d’Icaro avenne, arder le piume;
ma non posso non far quel ch’Amor vuole;
altrimente convien ch’io mi consume,
anzi ch’io mora; e se morir si deve,
morte, di lei parlando, è dolce e lieve.