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elegia terza. | 219 |
Arroge il pensar poi da chi m’assenti,
Che travaglio non è, non è periglio,
15Che più mi stanchi o che più mi spaventi.
Péntomi, e col pentir mi meraviglio
Com’io potessi uscir sì di me stesso,
18Ch’io m’appigliassi a questo mal consiglio.
Tornar addietro omai non m’è concesso,
Nè mirar se mi giova o se m’offende:
21Lecito fôra1 più quel c’ho promesso.
Mentre ch’io parlo, il torbid’austro prende
Maggior possanza, e cresce il verno, e sciolto
24Da’ rovinosi balzi il licor scende:
Di sotto il fango, e quinci e quindi il folto
Bosco mi tarda; e in tanto l’aspra pioggia,
27Acuta più che stral, mi fêre il volto.
So che qui appresso non è casa loggia
Che mi ricopra, e pria che a tetto giunga,
30Per lungo tratto il monte or scende or poggia.
Nè più affrettar, perch’io lo sferzi o punga,
Posso il caval, chè lo sgomenta l’ira
33Del cielo, e stanca la via alpestre e lunga.
Tutta quest’acqua e ciò che intorno spira,
Venga in me sol, chè non può premer tanto
36Ch’agguagli il duol che dentro mi martira.
Chè se a Madonna io m’appressassi quanto
Me ne dilungo, e fosse speme al fine
39Del mio cammin poi respirarle a canto;
E le man bianche più che fresche brine
Baciarle, e insieme questi avidi lumi
42Pascer delle bellezze alme e divine;
Poco il mal tempo, e monti e sassi e fiumi,
Mi darían noja, e mi parrebbon piani,
45E più che prati molli, erte e cacumi.
Ma quando avvien che sì me ne allontani,
Le amene Tempe e del re Alcinoo gli orti
48Che pôn, se non parermi orridi e strani?
Gli altri in le lor fatiche hanno conforti
Di riposarsi dopo, e questa speme
51Li fa a patir le avversità più forti.
- ↑ Non crediamo che questo fôra sia qui posto nel suo grammatical senso di sarebbe; ma piuttosto, in quello abusivo ed improprio di sarà.