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Coro di giovani romani.


     Vedete voi, compagni, a noi venire
Erculei garzonetti, che di tratto
Qui sono presti a gareggiar del canto?
Senza il perchè così non vengon certo.
Malagevol ci fia vincer, chè i carmi
Voglion mente serena: or tristi noi,
Ch’altro dar noi possiam che non sia pianto,
Caduti in fondo da cotanta cima,
Poscia che te, bellissima Lucrezia,
Oggi talamo estranio invidia a noi?
     Crudo Imene, ai Romani Imenéo infesto.

Ferraresi.


     Ecco i roman cantori, che sovente
Cinser del segno di vittoria il capo,
Van ricercando meditati carmi.
Compagni, questa non è agevol palma
Per noi, che ad alternare a prova i canti
Incominciam: pur maggior gloria è quella
Che di molta fatica si deriva.
Qua presto; all’opra date tutti intesa,
Nè indugio si frapponga a dir bei versi
Quando a voi tocchi del cantar la volta.
     Dolce Imen, caro Imene, Imenéo vieni.

Romani.


     Tutto cangia quaggiù: Roma che un giorno
Il capo sollevò, maggior d’ogni altra
D’Italia, quanto annoso abete incontro
A stel di giunco molle, e quanto il Tebro
Antico incontro a piccioletti rivi,
Vuoi per gloria di studî o d’alte mura;
Or sotto il peso delle sue ruine
Giace deserta e vuota; e dove i templi
Torreggiavan de’ numi, e il Campidoglio,
La Curia, e il seggio del Senato augusto,
Ellera va carpon co’ piè distorti,
Ed infelici arbusti a serpi nido.
Ma lieve danno è questo: al suol ruini,
Se avanza ancor reliquia alcuna, e solo