Pagina:Ariosto-Op.minori.1-(1857).djvu/80

Da Wikisource.

canto secondo. 51

Venne, e portó le sue malefiche arti.

104 So ch’alcun scrive che la via non prese,
Quando fuggì dal suo figliastro audace,
Verso Boemia, ma andò nel paese
Che tra i Caspî l’Oronte e Ircania giace,
E che ’l nome di Media da lei scese:
Il che a negar non sarò pertinace;
Ma dirò ben, ch’anco in Boemia venne
O dopo o allora, e signoría vi tenne;

105 E fece in mezzo a questa selva oscura,
Dove il sito le parve esser più ameno,
La stanza sua di così grosse mura,
Che non verran1 per molti secol meno;
E per potervi star meglio sicura,
Di spirti intorno ogni arbor avea pieno,
Che rispingean con morti e con percosse
Chi d’ir ne’ suoi segreti ardito fosse.

106 E perchè, per virtù d’erbe e d’incanti,
Delle Fate una ed immortal fatt’era,
Tanto aspettò, che trionfar di quanti
Nemici avea, vide al fin morte fiera:
Indi a grand’agio ripensando a tanti
A quai fatt’avea notte innanzi sera,
All’ingiurie sofferte, affanni e lutto,
Vide esser stato amor cagion di tutto.

107 E fatta omai per lunga età più saggia
(Che van di par l’esperïenze e gli anni),
Pensa per l’avvenir come non caggia
Più negli error che avea passati, e danni;
E vede, quando amor poter non v’aggia,
Che in lei, nè ancor avran poter gli affanni;
E studia e pensa e fa novi consigli,
Come di quel tiran fugga gli artigli.

108 Ma, perchè, essendo della stirpe antica
Che già la irata Vener maledisse,
Vide che non potea viver pudica,
Ed era forza che ’l destin seguisse;
Pensò come d’amor ogni fatica,
Ogni amarezza, ogni dolor fuggisse;
Come gaudî e piacer, quanti vi sono,


  1. Nel Barotti: «non verria.»