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atto quinto. — sc. viii, ix. 111

ch’io indugio di vedere il mio figliuolo, uno anno mi pare.

Cleandro.     Andiamo. Tu puoi, gentiluomo, rimanere col mio figliuolo in casa, chè queste cose da principio non sono da trattare con tanti testimoni.

Sanese.     Io farò come voi volete.


SCENA IX.

PASIFILO, CLEANDRO, FILOGONO, DAMONE,

EROSTRATO.


Pasifilo.     Non posso da te, Cleandro, impetrare che dir mi vogli in che ti ho offeso?

Cleandro.     Sono ormai, Pasifilo, chiaro, ch’io t’ho con parole ingiuriato a torto; ma il testimonio a cui ho dato in causa propria, contra il debito, fede, m’ha tratto in questo errore.

Pasifilo.     Mi piace che la ragione non sia stata da la malizia oppressa: ma non dovevi credere così facilmente, e dirmi tanta villania.

Cleandro.     Ho questa mia collera così súbita, che non ci posso riparare.

Pasifilo.     Che collera? ingiuriare un uomo da ben pubblicamente e darli carico, e poi dar colpa alla collera? Una bella scusa!

Cleandro.     Non più, Pasifilo; io ti sono, come fui sempre, amico, e accadendoti l’esperienzia, son per dimostrartene chiarissimi effetti. Domattina t’aspetto a disinare meco. Questo è Damon, ch’esce di casa: lascerai parlare a me prima. Veniamo a te, Damone, per farti tornare in gaudio la mestizia che ci persuademo che debitamente per il caso occorso ti molesti, certificandoti che colui che sin a quest’ora hai per Dulipo e tuo famiglio reputato, è figliuolo di questo gentiluomo Filogono di Catania, a te non inferiore di sangue, ma di ricchezza, come tu stesso avere puoi per fama inteso, superiore.

Filogono.     E così sono io apparecchiato emendare, in quello ch’io posso, il fallo del mio figliuolo, facendolo a te genero legittimo, quando ti contenti; e se altra cosa è che per te possa far più, ad ogni volere tuo mi ti offero paratissimo.

Cleandro.     Ed io, che pur dianzi Polimnesta ti dimandavo per sposa, da te rimango sodisfattissimo, quando a mia instanzia al figliuolo di costui tu la conceda, a cui più debita-