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128 la cassaria.

Promesse, vi condennate, venissero!
Erofilo.Hai torto a dir così.
Eulalia.                                  Se gentiluomini
Voi sete, e ricchi, non però noi povere
Donne schernir dovreste, e di noi prendervi
Giôco; ch’ancor che così la disgrazia
Nostra ci guidi, non però d’ignobile
Casato erâmo nella nostra patria.
Erofilo.Non far, Eulalia, con questi rammarichi
Il mio affanno più acerbo. Deh! non credere
Che con l’intenzïone non si accordino
Le parole, e che tutto il desiderio
Nostro non sia di trarvi dal servizio
Di quest’uomo bestial: ma così facile-
mente non possiam farlo, nè sì subito,
Come saría il nostro disegno e l’animo
Buono. Perchè mi vedi d’onorevoli
Panni vestito, ed odi che ricchissimo
Mercatante è mio padre, tu t’immagini
Che nelli suoi danari io possa mettere
Mano a mia posta, ed a mio senno spendere.
E questo che di me ti dico, dicoti
Ancora di quest’altro: ambi a un medesimo
Segno andiamo. Gli è vero che ci abbondano
Le facultadi, ma non è in arbitrio
Nostro disporne: ambi abbiam padre: pensati
Che tenaci non men che ricchi sieno,
E che non usin minor diligenzia
In conservar la roba, che l’usassino
In acquistar. Non mi è stato possibile
Fin qui, per dio, di por la man su ’n picciolo.
Ma poi ch’oggi mio padre pur scostatosi
È da me un poco, chè per ire a Procida
Questa mattina si partì, non dubito
Di non ti far conoscer ch’io non simulo,
Ma ch’io parlo di côr. Vô che mi pubblichi
Pel più scortese, pel più ingrato e perfido
Uom che sia al mondo, se domani...
Eulalia.                                                          Ah Erofilo,
Mal abbia il mio crederti tanto. Passano
E gli oggi e gl’ieri tutti; pur non giungono
Mai questi vostri domani.