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atto terzo. — sc. v, vi. 29


Trappola.     Tu ti pigli strana cura: te n’ho io a pagare il dazio?

Gianda.     Tu non la dêi avere denonciata alla dogana: dove n’hai tu la bolletta?

Trappola.     Che bolletta? questa non è merce da tôrne bolletta.

Gianda.     D’ogni merce s’ha a pagare dazio.

Trappola.     Di quelle da guadagno si paga; non di queste, che son da perdita.

Gianda.     Da perdita ben dicesti, chè tu l’hai persa: t’abbiam pur colto in contrabbando; lascia costei.

Corbacchio.     Eulalia, andiamo a trovare Erofilo tuo.

Gianda.     Lascia, se non ch’io...

Trappola.     Così si assassinano i forestieri?

Gianda.     Se non taci, ti caccio gli occhi.

Trappola.     Voi credete a questo modo, ribaldi?... Ajuto, ajuto!

Gianda.     Spézzali il capo, cávali la lingua.

Trappola.     A questo modo, traditori, m’avete tolto la mia femmina?

Gianda.     Andiamoci con Dio, e lasciamolo gracchiare.

Trappola.     Che farò, misero? Se devessi ben morire, vô seguitarli per vedere ove la menano.

Gianda.     Se tu non ritorni, ti farò più pezzi di cotesta tua testaccia, che non si fe mai di vetro. Se tu ci pretendi aver ragione, lásciati veder dimane all’offizio de’ doganieri.

Trappola.     — Son mal condotto; m’han tolta la femmina, m’hanno gettato nel fango, stracciato la veste e tutto pesto il viso. —


SCENA VI.

EROFILO, VOLPINO, TRAPPOLA.


Erofilo.     Costui per certo indugia molto a condurne costei.

Volpino.     Non venir più innanzi, chè tu guasti ogni disegno nostro.

Trappola.     (Con che fronte posso comparir dove sia Erofilo?)

Erofilo.     Parmi vederlo là.

Trappola.     (Come potrò mai giustificarmi seco, che non creda...)

Volpino.     Esso è, per dio.