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atto quarto. — sc. iii. 401

SCENA III.

CINTIO, TEMOLO, FAZIO, FACCHINO.


Cintio.Io truovo finalmente che rimedio
Altro non ci è, che far che paja adultera
Costei.
Temolo.          (Eccol, per dio!)
Cintio.                                        Darmi ad intendere
Vuol pur, che potrà poi acchetar facile-
mente la cosa, e non ci sarà infamia
Alcuna.
Temolo.            Credo v’andiate a nascondere
Quando a’ maggior bisogni vi vorressimo.
Cintio.Che bisogni son questi?
Temolo.                                      Se Lavinia
Non ite tosto a consolare, ho dubbio
Che morta poi la ritroviate.
Cintio.                                             Ah! Temolo,
Che l’è accaduto?
Temolo.                              È in tal timor la misera,
Che questo negromante con malefica
Arte vi faccia mutar di proposito,
Che si strugge, e uno svenimento d’animo
L’è venuto.
Cintio.                    Non tema.
Temolo.                                     E sta malissimo.
Cintio.Io vo a lei.
Temolo.                  Per vostra fè...
Fazio.                                             V’ha, Cintio,1
Detto costui come Lavinia?...
Cintio.                                                  Or eccomi
Ch’io vengo per cotesto.
Fazio.                                        Confortatela.
Non avresti potuto pensar, Temolo,
Meglio.
Temolo.          Pagate il facchino, e mandatelo
Pur via, e mandatel ben lontano e subito.


  1. Così, col Giolito, ancora il Barotti; nè so d’onde altri cavassero quella ricantazione: Vo a lei. — Per vostra fede. — V’ha egli, Cintio.

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