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26 SATIRA

Che, s’al mio genitor, tosto ch’a Reggio
     Daria mi partorì, faceva il giuoco,
     Che fè Saturno al suo ne l’alto seggio,
Sì che di me sol fosse questo poco,
     Nel qual dieci tra i frati e le sirocchie
     È bisognato, che tutti abbian loco;
La pazzia non avrei de le ranocchie
     Fatta giammai, d’ir procacciando, a cui
     Scoprirmi il capo, e piegar le ginocchie.
Ma poi che figliuol unico non fui,
     Nè mai fu troppo a ’ miei Mercurio amico,
     E viver son sforzato a spese altrui;
Meglio è, s’appresso il Duca mi nutrico,
     Che andare a questo e a quel de l’umil volgo
     Accattandomi il pan, come mendico.
So ben, che dal parer de i più mi tolgo:
     Lo stare in corte stimano grandezza;
     Io pel contrario a servitù rivolgo.
Stiaci volentier dunque chi l’apprezza:
     Fuor n’uscirò ben io; s’un dì il Figliuolo
     Di Maria vorrà usarmi gentilezza.
Non si adatta una sella, o un basto solo
     Ad ogni dosso: ad un par che non l’abbia,
     A l’altro stringe, e preme, e gli dà duolo.
Mal può durar il rosignuolo in gabbia:
     Più vi sta il cardellino, e più il fanello:
     La rondine in un dì vi muor di rabbia.